The House of Mannequins

Andrea Bonaveri racconta a Caterina Lunghi la sua vita dedicata all’azienda di famiglia.

Riviste Publicate

Nel primo articolo tratto dal “Bonaveri Magazine”, la giornalista di moda Caterina Lunghi intervista Andrea Bonaveri, CEO dell’azienda.

Scritto da Caterina Lunghi | 14 Aprile 2020

Renazzo di Cento. La Bonaveri si trova nel cuore della campagna della provincia di Ferrara. Dall’ufficio di Andrea Bonaveri, alla guida con il fratello Guido, seconda generazione della famiglia, vetrate cielo terra spalancano la vista sul panorama, la distesa di campi e la natura intorno.

Un ampio spazio, essenziale: un tavolo per le riunioni, la scrivania di Andrea Bonaveri e, dietro, sulla parete, un moodboard di ispirazioni e immagini, fotografie d’epoca con i genitori Romano e Adele, che hanno fondato il primo nucleo dell’azienda nel 1950, ritratti, copertine di magazine, volti di modelle e manichini, suggestioni di corpi e pose. L’inconfondibile poltrona di Charles & Ray Eames e silohoutthes e sculture di manichini ai lati.

Bonaveri, Schläppi, Aloof, Sartorial, Tribe…: in questo stabilimento di 20mila metri quadrati vengono realizzate quasi 20 collezioni più idee ad hoc per ogni occasione e necessità, 15.000 pezzi l’anno tra manichini e busti, partendo dai bozzetti in creta fino al body scanning, dalla più antica maestria artigiana fino alle ultime tecnologie.

Aloof è il manichino, possiamo affermare, più richiesto e visto nelle vetrine dei department stores e negozi più famosi e glamourous di tutto il mondo. Ma ogni collezione e proposta Bonaveri, dai busti alle possibilità bespoke, trovano nel mercato l’occasione di dettare nuove mode e stili.

In realtà quando mi si chiede come e perché, non lo so. Mi sento e lo faccio. Non so definire una visione e una strategia a tavolino, non so se sia un vedere più avanti degli altri… Per questo magari le mie interviste possono risultare strane, perché non definisco uno schema o un metodo… è più una questione di istinto.

Finora però la tua intuizione non ha mai sbagliato.

[Ride] Quelle quattro cose che ho fatto… sì mi sono andate bene. Adesso vedremo l’ultima, l’acquisizione e rilancio della Rootstein: è una passione che si fa occasione di lavoro, ci credo fermamente e sento la responsabilità di farne una storia di rinascita, una occasione per allargare la linea d’orizzonte del nostro lavoro. A me piace molto questo manichino, agli antipodi del nostro manichino stilizzato; mi piace la Rootstein, mi è sempre piaciuta, ho sempre ammirato questa azienda fondata da Adel Rootstein negli anni 50 a Londra dedicata ai manichini realistici. E così abbiamo fatto questo passo.

Il tuo ruolo: sei tra due mondi, tra quello creativo e manageriale, e già da questo ufficio si percepisce.

Esatto. È il giusto connubio. Non sono creativo come un artista ma non vivo neanche solo sui numeri, tutt’altro. Ma partiamo da lontano, ti va?

Certo.

Fondamentalmente non volevo fare nulla [ride].

Vivere sulle spalle dell’azienda di tuo papà?

In realtà di soldi ce n’erano molto pochi; mio papà veniva da una situazione negli anni 70 in cui l’azienda era una piccola realtà che gestiva le commesse utilizzando dei fornitori esterni. Era veramente una piccola azienda.

Ma gli inizi erano stati quelli di una storia da romanzo.

Considera che mio papà negli anni 50 è stato un pioniere, si è messo in gioco con un sacco di gesso, carta di giornale e un pacco di argilla e ha fatto il primo manichino, l’ha caricato su un carretto trainato da una bicicletta ed è andato in giro per cercare di venderlo. È quella parte d’Italia del dopoguerra che oggi ce la sogniamo: gente come lui ce n’era tanta, che ha costruito le basi di molte aziende, costruendo anche l’economia italiana. Mio papà era uno di quelli. Quindi dalla parte poetica iniziale, anche faticosa e piena di sacrifici, arriviamo alla fine degli anni 70, quando io mi affaccio nelle cose di impresa.

Studiavi?

Ero giovane… avevo tante idee per la testa, tante distrazioni. Diciamo che non sono mai stato uno studente modello (ride). La scelta della mia scuola superiore fu una casualità.

Che scuola era?

Un istituto di formazione per operatore turistico. Ero affascinato un po’ dai viaggi che non avevo mai fatto. Ancora non avevo una idea precisa di futuro o un sogno particolare nel cassetto.

Nel frattempo viaggiavi?

No, niente viaggi. Ne giravano pochi di soldi in casa come dicevo. Ho iniziato a lavorare in azienda un po’ svogliatamente, verniciavo i manichini, imballavo, lavoravo qua e là, ma diciamo che prevalentemente il mio interesse era concentrato sul tirar tardi e far festa con gli amici. Erano i vent’anni in un piccolo paese della provincia, tra terra e mare.

Poi dopo mi sono detto: “Non posso andare avanti così. Faccio il rappresentante, così almeno posso girare un po’ e conoscere il mondo. Col senno di poi è stata una fortuna, una scelta azzeccata.

Così ho preso la mia macchina, una Citroen due cavalli, e con i cataloghi ho iniziato a visitare negozio dopo negozio. Una grande delusione! La gente non era interessata ai nostri manichini, mi rispondeva: “Siamo a posto, grazie”. Poi magari quando tornavo nella via rivedevo i mie cataloghi buttati nel cestino… se ci penso adesso ricordo anche tanti momenti di imbarazzo, e qualche situazione umiliante. Ma sono state proprio quelle porte in faccia a cambiare le cose, a darmi uno stimolo che prima non trovavo e a farmi fare le scelte che in qualche modo ci hanno portato dove siamo adesso. Cercare altro, mirare più in alto, uscire dalla logica di vicinato.

Ma all’epoca a chi vi rivolgevate?

Noi facevamo il manichino realistico e busti per vetrina, soprattutto busti da sartoria e per i negozi che rivendevano le macchine da cucire. C’erano la Necchi, la Borletti, la Pfaff, la Singer…

Tornando alla tua storia.

Allora lascio il porta a porta e mi chiedo chi è l’azienda di moda più importante: in quel periodo Benetton. Chiamo in sede a Ponzano a Treviso, mi vendo bene e mi dicono che chi si occupava delle loro delle vetrine era l’architetto Tobia Scarpa. Benetton al tempo era molto avanti.

Così telefono all’architetto Scarpa e riesco a organizzare un incontro. Mi invita ad andare a trovarlo. Nel suo studio parliamo di molti argomenti, e scatta una simpatia, forse gli era piaciuta la mia sincerità. Poi mi dice di vederci a Ponzano con Luciano Benetton la settima seguente, e così è stato.

Benetton è stato il tuo primo grosso cliente.

Dovevano sviluppare un nuovo progetto che si chiamava Benetton Uomo, volevamo aprire alcuni negozi per sondare un po’ il mercato. Doveva essere un uomo elegante. Questo progetto interessava molto al Signor Benetton, ne parlammo insieme e sviluppai un manichino per loro. È stato uno dei miei primi progetti. Volevo mostrargli le foto, telefono in azienda ma mi dicono che era negli Stati Uniti, a New York.

Come è andata a finire?

Il caso vuole che dovevo proprio andare a New York, perché facevamo una fiera con il nostro agente negli Stati Uniti. I miei primi viaggi sono stati negli Stati Uniti, New York è stata la mia formazione. Nell’84 feci il mio primo viaggio lì, per visitare la fiera Nadi. E decido di andare anche a visitate la sede Benetton americana.

Arrivo sotto un grattacielo di Manhattan, salgo, entro in una mega reception, chiedo del Signor Benetton e mi dicono di attendere.

Lo avvisano e da una porta sbuca fuori Luciano Benetton in persona. Mi guarda stralunato, ero lì senza appuntamento, e mi chiede: “Buongiorno, ma che ci fa qua?” Gli rispondo che volevo fargli vedere le foto del nuovo manichino che avevo studiato per i nuovi negozi Benetton uomo.
Mi fa entrare nella sala riunioni con i suoi collaborati, presentandomi come uno dei maggiori e migliori fabbricanti di manichini al mondo! Allora mostro queste foto…

È stata una bella presentazione da parte sua, ti ha accordato subito fiducia.

Mi ha presentato come il fenomeno dei manichini, secondo me era sbalordito dalla stranezza della situazione. Dopo aver guardato le foto dei manichini, mi ha detto che andavano bene e di mettermi d’accordo con Scarpa.

Che episodio, che incontro.

Se ci penso adesso ancora non ci credo. Ma nella vita nulla succede per caso e alla lunga se ti impegni, se fai il lavoro con serietà ti accorgi che quello che spesso si dice fortuna non è altro che il premio alla tua fatica e determinazione.

Sono sicura hai altri aneddoti con personaggi che hanno fatto la storia della moda.

Armani è stato molto importante per la nostra crescita. Ha incominciato ad aprire i primi negozi con i nostri prodotti. Quando c’erano le inaugurazioni dei suoi negozi, andava prima per sistemare le vetrine personalmente. Una volta dovevamo presentargli un nuovo manichino per le sue boutique, ricordo che nacque una intesa particolare tra lui e mio padre. Quando seppe che era uno sculture gli chiese se poteva fargli vedere un’opera che aveva appena comprato. Così ci ha portato nel suo appartamento all’ultimo piano di via Borgonuovo: un ambiente di una bellezza essenziale, minimalista, privo di decorazioni. Ricordo con quanta cura tenne a mostrarci una scultura in marmo del periodo romanico, parlandone con papà, anche lui appassionato di questo genere di opere.

Oppure ricordo con grande emozione un paio di anni fa l’incontro con Monsieur de Givenchy, un’altro grandissimo. Siamo in Svizzera all’inaugurazione della mostra di Audrey Hepburn (“Audrey Hepburn & Hubert de Givenchy presso l’Expo Fondation Bolle a Morges nel 2017, ndr). La famiglia dell’attrice è presente, e Monsieur de Givenchy, che aveva 90 anni, s venne a complimentare con me, dicendomi che i nostri manichino sono i più belli, e che riteneva che solo i nostri Schläppi sapessero esaltare le sue creazioni. Se ci ripenso mi emoziono ancora adesso mentre te lo racconto.

Non solo Givenchy ma siete stati e siete i partner di numerose mostre delle maison di moda di ieri e di oggi, penso a Pucci, Missoni, Gou Pei, Lanvin appena terminata a Shanghai… con l’apoteosi delle esibizioni di moda per eccellenza, quelle organizzate al Metropolitan di New York da Anna Wintour, curate da Andrew Bolton. Ogni volta entrate in gioco non come fornitori ma con un rapporto di partnership e collaborazione, spesso personale e di fiducia.

Questo è proprio il caso di una passione personale che è potuta diventare parte della vita professionale. Fin da giovanissimo sono stato affascinato dalle esposizioni dedicate a raccontare la moda, ne andavo a vedere ogni volta che era possibile. Era n modo per cercare di dare un contesto più largo al nostro lavoro, di trovare ispirazioni. Il mio lavoro è la mia vita, naturalmente la mia famiglia, ma al di fuori della famiglia ho il lavoro. Perché? Non perché non so cosa fare, ma trovo più interessante nel tempo libero guardare cose inerenti al lavoro: la moda, l’arte, il design, l’architettura. Il rapporto con i musei riesce a condensare tutte le mie passioni in un unico gesto.

Cosa ancora ti fa brillare gli occhi dopo tanti anni di lavoro ed esperienze?

Per me la gioia più grande è vedere alla fine un cliente soddisfatto. Non è la fornitura, non mi sono mai svegliato una mattina pensando al denaro. La mia grande motivazione verso la ricerca della qualità assoluta è data anche dal desiderio di mantenere le promesse che facciamo, e anzi provare sempre a superarle lasciando il cliente sorpreso e appagato di quanto abbiamo realizzato per lui. Un rapporto che si esercita al meglio nel caso delle creazioni personalizzate, dove dobbiamo saper interpretare le esigenze di un marchio, i desideri di uno stilista, andando a creare spesso cose mai viste o pensate prima. Sono queste sfide la benzina emotiva che ci fa crescere, che ci mette alla prova continuamente.

In tanti anni abbiamo potuto confrontarci con tutti i grandi nomi, non solo gli stilisti e i brand di moda, ma anche gli studi di progettazione, i grandi architetti che ne realizzano i negozi – che sono l’altra mia grande passione – fino alle istituzioni con cui collaboriamo come appunto il Victoria & Albert Museum di Londra, il Metropolitan a New York… il MoMu di Anversa.

Ma fai anche di testa tua. Se un cliente ti chiedeva il manichino realistico tempo fa con make up e parrucca non ci stavi.

Ah no, no! (ridendo). Non era il mio genere di prodotto. Ci siamo sempre distinti per le forme stilizzate, minimaliste, a volte quasi astratte nella loro semplicità e iconicità. E poi nel manichino realistico c’era chi ne aveva fatto una vera e propria arte, Rootstein! Non avremmo potuto compretere.

Per questo nel 2001 Bonaveri acquistò il marchio svizzero Schläppi?

Anche quello è stato il caso di un sogno divenuto poi realtà. Vedi, Bonaveri per tutti gli anni ’80 e ’90 si era distinta per la qualità di prodotti di alta manifattura, manichini rivestiti in tessuto, busti sartoriali, prodotti realizzati spesso in modo artigianale. Lavorati spesso con le materie nobili da artigiani che cuciono, tagliano, rivestono. Mi piace il legno, il manichino con la testa e le braccia in legno. Amo la pelle, il cuoio, il metallo, tutti questi materiali messi insieme sono la mia passione.
Schläppi invece aveva un manichino dal fascino astratto e misterioso, che può ricordare De Chirico. Erano opere di un altro mondo, che tra l’altro in quegli anni non avevano particolare successo commerciale perché erano di fuori dalle mode del momento. Il loro essere senza tempo è stata la chiave del loro successo successivo. Perché proprio dopo quell’acquisizione siamo riusciti a svilupparne tutte le potenzialità.

Come è avvenuto l’incontro con Schläppi?

La famiglia Bonaveri e la famiglia Schläppi si conoscevano da tanti anni, ci si rispettava a vicenda, in nome di una concorrenza molto leale. Ricordo che un’estate alla fine degli anni ’90 Schläppi venne in vacanza in Italia con sua moglie e così ci incontrammo. Era stanco di lavorare, sentiva di aver già fatto il proprio meglio. Fu uno di quei momenti in cui seguendo l’istinto ti lanci in qualcosa che ancora non hai progettato. Alla fine c’è sempre una componente irrazionale, sentimentale nelle grandi scelte. Cominciammo a discutere seriamente e dopo alcuni mesi acquistammo la società.

Ricordo che non fu una scelta facile, era anche un grande rischio. Ma si sa, se non ti prendi dei rischi non arrivano neanche le soddisfazioni. Ricordo ancora le discussioni con mio fratello Guido, con mio padre e mia madre. Ma alla fine eravamo tutti molto sereni nel prendere questa scelta.

E come il mercato ha accolto questo manichino così diverso?

Faccio vedere questo manichino ad alcuni visual, che mi dicono: “roba vecchia, ma chi la compra!?”.

Al tempo cosa andava?

I manichini realistici della Rootstein, o manichini e busti senza testa. Fummo proprio noi i primi nel ’93 con l’incontro con Jil Sander a fare il primo manichino senza testa ispirato al corpo di Linda Evangelista (vedi intervista Jil Sander) , andava ancora quel tipo di prodotto.
Mi ricordo una volta il visual di un importante brand di moda che dopo aver visto i nuovi cataloghi di Schläppi mi disse: “Ma Andrea a chi li vendi questi manichini?!”. Invece è scattata una forma di magia. Quelle forme erano ciò che mancava e hanno creato con la propria presenza un nuovo modo di dare valore all’abito e di interpretare la vetrina. Fu un successo assoluto, per assecondare il quale dovemmo costruire questa nuova sede – nel 2006.

Ho sempre definito Schläppi uno sleeping brand, era un marchio che stava dormendo, bastava svegliarlo. In due e tre anni è diventato un grande successo e sicuramente ci ha fatto fare un salto di qualità fondamentale per arrivare ad essere l’azienda che siamo oggi.

Forse anche perché la moda intanto aveva voglia di vetrine nuove e freschezza.

Probabile, ma io non lo sapevo. La storia la si comprende con il senno di poi. E oggi sappiamo che in quei primi anni 2000 era l’Italia a definire la novità in fatto di negozi e vetrine, non più gli Stati Uniti.

Negli anni 80 come dicevi andavi a New York per ispirazioni e stimoli. Oggi ci può essere una nuova città o paese a cui il tuo settore deve guardare?

Da un ventennio è l’Italia, non c’è più quella differenza come negli anni 80 e 90 tra l’Italia e Londra o gli Stati Uniti. Certo, quando vado a Londra trovo sempre una energia incredibile e ne torno pieno di entusiasmi e motivazioni. Ti confesso che è anche un fattore di grande orgoglio passare per le strade della moda e vedere i nostri prodotti nelle vetrine.

La moda, per definizione così veloce e temporanea, e dall’altra parte il manichino, che deve avere vita più lunga di una stagione. Il suo ruolo in una vetrina e per l’abito.

Non c’è una regola, ogni stilista vuole che il proprio abito venga esposto nel miglior modo possibile e ogni stilista ha le sue esigenze. Sarah Burton di Alexander McQueen ad esempio desidera che il manichino indossi l’abito in modo impeccabile: la caduta della spalla, il seno, la vita, il fianco. Altri clienti, possono essere meno interessati alla vestibilità e più alla forma della donna, più sensuale e provocante. Ogni stilista ha delle necessità. Quindi, che dire? Il manichino deve scomparire? Risaltare? Dipende da come il direttore artistico vuole vedere il suo capo esposto in vetrina. È molto, molto soggettivo.

Dall’altra parte la vostra disponibilità e abilità nello studiare e creare insieme a loro il manichino che desiderano.

In ogni richiesta troviamo lo stimolo per evolvere quello che apparentemente è un rapporto sempre uguale. Invece il manichino è ancora un oggetto pieno di opportunità da esplorare.

Finiamo tornando all’inizio: nel 2019 Bonaveri acquista il marchio inglese Rootstein. Cosa dobbiamo aspettarci?

Hai presente quel libro di Renzo Rosso? “Be Stupid” (ride). A volte serve anche un pizzico di incoscienza… Rootstein è per il manichino realistico ciò che Schläppi rappresenta per lo stilizzato. In un certo senso è il completamento della gamma. Anche se è un cambio di scena radicale e molto complesso da punto di vista artistico. Proprio in questo momento stiamo lavorando ad ultiare la prima collezione d’archivio che rilanceremo all’Euroshop di Dusseldorf. Abbiamo scelto di partire da una icona assoluta: Twiggy. E anche questa non è una scelta commerciale, ma un messaggio di stile, l’esplorazione di una nuova estetica. Abbiamo rilevato il loro archivio, con un centinaio di collezioni una più bella dell’altra, bisogna solo riattualizzarle. Twiggy mi serve per ricordare chi è Rootstein e farlo conoscere ai giovani designer e visual.

Twiggy nel 2020?

È il manichino degli anni ‘60 ma riproporzionato. Twiggy era alta 1.60, l’abbiamo portata a 1.80, perché altrimenti sarebbe diventata una petite. Qui forse c’è stata un po’ di strategia: far ricordare e scoprire ai nuovi visual questo brand, che ha dato tanto e può dare ancora tantissimo in futuro, perché è vero che tutti guardano al presente ma le cose veramente interessanti le vediamo nel passato, o no?

Certo, è anche il corso e ricorso della moda.

Sì, anche i grandi designer il più volte delle volte si ispirano a cose e idee antiche, passate, degli anni 20, 40, 50, 60… in fondo, tutti noi cerchiamo nel passato la radice del nostro domani.

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