Making The Impossible Possible

Emma Davidge e Andrea Bonaveri raccontano come la loro collaborazione e sintonia abbia dato vita a creazioni uniche

interview | Riviste Publicate

Ci sono incontri che hanno la capacità di lasciare segni profondi nella vita delle persone, così come nelle cose, nei luoghi, nella storia delle imprese e, a volte, in quella di un intero settore.

Scritto da Caterina Lunghi | 05 Maggio 2020

È il caso della collaborazione e della personale sintonia che rintracciamo nel rapporto tra Andrea Bonaveri ed Emma Davidge; CEO della Bonaveri il primo, Creative Director di Chameleon Visual la seconda.

Cresciuto nel mondo dei manichini, figlio d’arte, imprenditore a sua volta, Andrea ha saputo imprimere alla storia dell’azienda di cui porta il nome una crescita che non si riassume solo nelle dimensioni, ma soprattutto nella ricchezza di qualità estetica e manifatturiera dei busti e manichini.

Londinese, la Davidge comincia prestissimo a lavorare nel settore del visual display, fin da quando, ancora giovanissima, applica la propria sensibilità estetica lavorando nell’allestimento delle vetrine dei negozi. Un’esperienza che diventerà una professione, con la creazione di Chameleon Visual, una società di consulenza che negli anni ha sviluppato collaborazioni con il gotha del mondo della moda.

Nel corso degli ultimi vent’anni, Chameleon ha realizzato progetti unici per alcuni dei maggiori fashion brand del lusso; un lista di nomi illustri per i quali la creatività di Emma ha dato vita a vetrine, pop-up stores, allestimenti di eventi, sfilate e mostre spettacolari, nella costante ricerca di nuove esperienze creative.

È stato proprio grazie a questi progetti che la strada della Davidge ha incrociato quella di Bonaveri. Un incontro che era segnato nel destino, essendo entrambi impegnati a dare visioni e materia ai bisogni dell’industria della moda.

Quello che è cominciato come una semplice conoscenza professionale, con Bonaveri a fornire manichini per i marchi di cui la Davidge progettava le vetrine, si è via via strutturato con una caratteristica costante: ogni volta che Emma lavorava a un progetto di particolare complessità, nel quale la fantasia disegnava forme, strutture, posizioni, effetti scenici inediti, nel valutare la fattibilità di quelle forme e composizioni di corpi non restava che rivolgersi a Bonaveri.

È nato così, come modo di dire giocoso, quel making the impossible possible. Quelle visioni impossibili che Emma progettava per raccontare al pubblico il DNA e i progetti dei brand di moda riuscivano a diventare realtà solo nell’atelier di scultura, nella sartoria, nella manifattura della Bonaveri.

Perché se da una parte c’era una art director visionaria a spingere la fantasia oltre gli schemi del consueto, dall’altra troviamo in Andrea un imprenditore affascinato dalle sfide, appassionato da tutto quanto è capace di spostare in avanti il limite tra ordinario e straordinario.

Andrea Bonaveri & Emma Davidge pose alongside the new Obsession Mannequins

Come vi siete conosciuti?

Emma Davidge. Avevamo realizzato alcuni progetti per Louis Vuitton per i quali necessitavamo di alcuni manichini con atteggiamenti da acrobata; avevamo due campagne vetrine, che erano “Circus” e “EPI Magic”. È stata la prima volta che sono venuta a far visita alla fabbrica. A quel tempo lavoravo come consulente per le vetrine LV. Quando mi è stato affidato il compito di curare il progetto della mostra LV al Louvre, avevo bisogno di un manichino ad hoc e non ricordo perché, ma ho scelto di utilizzare dei manichini articolati. Sto cercando di ricordare perché li ho scelti… ah! perché stavo cercando così tante pose per mettere in scena racconti diversi che piuttosto che realizzare venti manichini su misura, ne ho scelto uno articolato per la sua versatilità. E tutto è partito da una bambolina articolata. Quindi sono venuta qui e ho mostrato ad Andrea il progetto e [guardando Andrea] la tua reazione è stata del tipo “forte!”. Ti ricordi?

Andrea Bonaveri. No!

Emma. Non ti ricordi quando sono venuta da te?!

Andrea. Mi ricordo quando sei venuta ma non ricordo la mia reazione.

Emma. Eri terrorizzato, credimi. Soprattutto quando ti ho parlato della scadenza. Il fatto era che quel manichino non esisteva. Nessuno l’aveva mai realizzato. Tutto partiva da una bambolina che andava tradotta in una figura dalle dimensioni reali e bisognava campire come farlo, come potergli far assumere le pose che volevo, come poterlo tenere in quelle posizioni senza che cadesse.  Come potevamo cambiare le teste… e alla fine abbiamo optato per realizzare due versioni: una totalmente articolata e una con finte gambe articolate perché era impossibile tenere in piedi un manichino totalmente articolato. Era troppo pesante.

Questo manichino doveva ricevere molti differenti tipi di teste realizzate a Londra dal mio scultore: c’erano teste di animali, a forma di nuvola di fumo, di pallone o di strobosfera. Insomma tante differenti teste stravaganti. E poi si trattava di far collaborare tante persone diverse e Marco (Marco Furlani, lo scultore della Bonaveri, vedete l’articolo dedicata all’atelier di scultura, editor’s note) venne a Parigi per aiutarci ad installare i manichini perché era qualcosa di nuovo che nessuno di noi sapeva assemblare!

E che anno era?

Andrea. 2012.

Emma. Sono felice che te lo ricordi [sorride].

E questo progetto è stato la sfida più grande?

Andrea. Anche le vetrine erano abbastanza difficili da realizzare perché ogni manichino era originale ed esclusivo.

E poi hai chiesto ad Emma di collaborare ad altri progetti?

Andrea. Beh, credo di poter dire che in quei momenti è nata un’amicizia e da allora abbiamo cominciato a collaborare ad altri progetti.

Emma. Poi abbiamo realizzato il manichino Speedy, quello con il bauletto LV al posto della testa. L’abbiamo fatto quando Louis Vuitton aprì il negozio in Bond Street a Londra ed erano per la mostra itinerante di Katie Grand.

Andrea.  E poi per Bally abbiamo fatto i manichini su tre modelli di bicicletta.

Emma.  Mi ero dimenticata di quelli! Erano dei manichini personalizzati che simulavano una persona in bicicletta ed erano per la presentazione della collezione di Bally. E poi, piano piano, si sono aggiunti altri progetti.  Abbiamo fatto le gambe per Fendi che salivano e scendevano le scale e molti altri, ma tutti realizzati su misura. Andrea è la persona migliore al mondo con la quale lavorare perché riesce a fare praticamente tutto.

Andrea. Non esagerare! E’ lei la migliore al mondo.

Andrea, perché lo dici?

Andrea. Non lo so. Davvero, non lo so. Quando lei disegna un progetto, è veramente unico. Non parlo solo di quelli che crea per noi ma anche tutti quelli che fa per i brand di moda.

In che senso sono unici?

Andrea. Unico per me significa “tutto”! Ogni volta che mi presenta un progetto mi chiedo come faccia, come possa essere così creativa e avere quelle idee.

E quindi, come fai?

Emma. Non lo so! Ti dico come lavoro. Io sono una visual storyteller e il mio lavoro è di dare vita a storie che diano emozioni a grandi e bambini. Non importa che lingua parlino o in che parte del mondo siano, l’importante è che possano capire la storia che sto raccontando.

E’ come essere un attore silenzioso sul palco. Ecco come la vedo.

E anche il manichino è un attore silenzioso sul palco.

Emma. Sì, lo è. I manichini raccontano tutta la storia così chiunque, indipendentemente dalla lingua, dalla cultura o età può guardarli e dar vita alle proprie fantasie perché è così che, da piccola, mi sono appassionata al mondo della vetrina.

Nei week-end ero solita rimanere fuori dai negozi con mio papà, con la faccia attaccata contro il vetro, mentre mia mamma era in negozio a fare acquisti, e inventavo racconti nella mia testa su dove stesse andando il manichino, cosa volesse indossare. Erano le mie fantasie di bambina. Ed è così che ancora lavoro.

Poi hai frequentato una scuola per visual?

Emma. No! Ho lasciato la scuola quando avevo 16 anni e ho ottenuto il mio primo lavoro con Joan Burstein nel negozio Browns. Mi ha insegnato tutto per tre anni e poi il resto è storia. Praticamente sono sempre stata a contatto con il lusso.

Browns è sempre stata molto avanti coi tempi.

Emma. Joan Burstein ha ideato il primo negozio multi-brand, come prima nessuno aveva fatto. Ho avuto la fortuna di lavorare con lei. Sono grata di averla avuta come insegnante.

E dopo Browns? Eri molto giovane, non avevi ancora 20 anni?

Emma. Ne avevo 16. Dopo Browns sono andata da Selfridges e ho imparato a conoscere il mondo display dei department store, per quasi tre anni, e poi mi sono trasferita in Italia dove avevamo molti clienti multi-brand come Romeo Gigli, Genny, Moschino…Ero una freelancer e allestivo le loro vetrine. Il resto del tempo viaggiavo in Europa.

Poi sono tornata a Londra…e cosa ho fatto? [Pensa] Ah, ho lavorato per Jigsaw in qualità di assistente del direttore creativo e poi, un giorno, ho sentito che era arrivato il momento di aprire la mia attività. Così ho fondato Chameleon Visual nel 2004.

E hai cominciato a collaborare con grandi nomi come Louis Vitton, Fendi …e poi è arrivato anche la Bonaveri.

Emma. La Bonaveri è sempre stata parte del gioco perché ho sempre usato manichini Rootstein e Bonaveri durante la mia carriera. Rootstein e Schläppi mi davano soddisfazione quando li vestivo. E’ così, punto e basta.

E adesso hai creato alcune collezioni Schläppi e stai collaborando al nuovo manichino Twiggy. Come è arrivata Twiggy?

Emma. Andrea e io ne parlammo quattro o cinque anni fa, un sera durante un viaggio in macchina verso Ferrara, di ritorno dallo showroom di Milano. Dissi ad Andrea: “Dovresti comprare la Rootstein!”. Fu un viaggio di due, tre ore e parlammo a lungo della Rootstein ma allora la cosa finì lì. Qualche anno dopo, un giorno Andrea mi disse “Ah! Ho delle news!”. E sì, era in trattativa per acquistare la Rootstein e ne fui molto contenta. Con Twiggy, ho curato lo styling mentre Andrea ha fatto tutto il resto. 

Per Bonaveri hai ideato Aloof, la collezione Tribe e Obsession che verrà lanciata in questi giorni. Cosa mi dici di quest’ultima?

Emma. Schläppi ha un DNA inconfondibile e adoro una delle primissime creazioni che ho soprannominato “the Monkey” perché gli atteggiamenti mi ricordano quelli della scimmia. C’è una tale bellezza ed eleganza nelle sue forme, le dita e gli arti allungati, il collo affusolato…è splendida.  E quando scavi nei pezzi di archivio, gli stampi, i volti, gli arti sono così atipici e goffi da essere unici e attraenti. Quando ho guardato i manichini originali Schläppi volevo davvero rivisitarli in chiave moderna e creare figure con la giusta altezza, la giusta dimensione ma conservando quella bellezza imbarazzante chi li contraddistingue … volevo creare qualcosa che la gente desiderasse comprare e senza tempo.

Quando abbiamo creato Aloof mi sono ispirata agli anni ’40 e ’50 e poi con Obsession siamo passati agli anni ’70 e tutto girava attorno a Pat Cleveland, Jerry Hall, Grace Jones e Diana Ross. Pat Cleveland, ad esempio, è stata una delle prime top model, il volto di tutti i brand di New York da Halston a seguire. Ho visto l’epoca di Studio 54, quando le ritrovavi insieme e le vedevi ballare – e le vedevi roteare e volteggiare sulla pista da ballo – è da lì che provengono tutti i movimenti e gli atteggiamenti degli anni ’70. Lì ho trovato l’ispirazione per creare degli Schläppi senza tempo. Quando unisci atteggiamenti apparentemente sgraziati con linee in movimento ottieni qualcosa di veramente bello.

Senza tempo hai detto, in un settore che è l’opposto per definizione.

Emma. Sai, il manichino è l’attore. La vetrina in un negozio di moda cambia ogni due settimane…ma il manichino deve essere senza tempo, nel senso che voglio che, chi tra cent’anni visiterà gli archivi e vedrà le nostre creazioni, provi la stessa eccitazione che ho io quando guardo i primi manichini Schläppi. Mi piace pensare che, in una prospettiva futura, qualcuno porti avanti l’eredità di Schläppi. Tornando alle collezioni che io e Andrea abbiamo creato, vorrei che la gente potesse dire: “Wow, fantastico!”. Siamo nel 2020… quanti anni ha adesso Schläppi?

Andrea. Schläppi risale al 1970.

Emma. Per cui ha circa 50 anni. La guardi ed è ancora in vetrina, è ancora lì.

Andrea. I manichini Schläppi sono iconici. Schläppi rappresenta “Il manichino”. Nessun altro è così famoso, così riuscito e unico. Guarda lo Schläppi 2200 per esempio, è l’unico al mondo.
Tornando alla nuova collezione Obsession, vorrei aggiungere una nota in merito alle pose: tutti i manichini in vetrina attualmente sono dritti come soldati, con gambe dritte e braccia dritte, ma tu [guardando Emma] ora hai disegnato un manichino completamente diverso. E mi piace l’idea di cambiare, dettando un nuovo trend.

Questo infatti è Obsession, che danza sulla pista da ballo. Entrambi vi state assumendo un nuovo rischio.

Andrea. Si tratta sempre di rischio. Quando abbiamo iniziato a progettare Aloof, il mercato era completamente diverso, nessuno aveva mai realizzato un manichino come questo prima.

Emma. Con Aloof sono stata ossessionata dall’idea dei gemelli. Come visual, l’unica cosa che mi ha frustrato dall’inizio della mia carriera era che, quando volevo la simmetria – perché amo la simmetria – non riuscivo a trovarla da nessuna parte: se volevo due manichini schiena contro schiena, uno guardava il muro della vetrina e l’altro il vetro … impossibile. Quindi con Aloof  ho voluto figure “gemelle”, simmetriche, per cui possono sedere schiena contro schiena e guardare entrambe nella stessa direzione per esempio.  E questa versatilità è piaciuta molto a chi ha scelto Aloof poiché era possibile fare vetrine che prima era impossibile realizzare.

Ed è in questo che la collaborazione è sorprendente; Andrea conosce i manichini meglio di chiunque altro e mi ha insegnato tutto ciò che so sulla produzione, mentre io conosco alla perfezione il mondo della vetrina e ciò che serve. Quando unisci questi due mondi, il risultato è sorprendente e molto performante.

Aloof è stata acquistata da subito, sin dalla sua prima presentazione, è stato fantastico! Ricordo che Andrea mi disse: “Non preoccuparti se non vende per i primi tre anni, ci vuole tempo”, ma li vendemmo ancora prima di aver ultimato la collezione. E poi Max Mara li ha lanciati a livello globale e da quel momento c’è stato il boom …!

Entrambi avete un’intuizione impeccabile.

Emma. Non ho mai strategie. Di solito vado a sensazioni … “E’ così,” lo so e basta

Penso di aver approcciato il settore moda in modo molto diverso. La gente di solito è attratta dal brand, dall’aspetto glamour mentre a me non interessa. A me piace lo storytelling, la storia che racconto.

Vivo in questo corpo ogni giorno, per me quello che faccio è normale, è naturale, non mi interessa davvero quello che dicono gli altri. Mi piace essere dietro le quinte, ed è per questo che il mio studio si chiama Chameleon, perché ci siamo ma non ci vedete. La storia che racconto è quella del cliente, non la mia. Ognuno ha una storia da raccontare e mi piace scavare perché succede sempre una magia quando la mostri alla gente.

La stessa cosa è successa lavorando con Pucci (vedi intervista a Laudomia Pucci, nota del redattore).

Volevo che il forte DNA di Bonaveri e di Pucci si unissero. C’è una storia negli archivi di tutti. Conosco il DNA di Bonaveri perché lavoro a stretto contatto con Andrea, e d’altra parte sono andata a scoprire il DNA di Pucci. Laudomia mi ha detto che suo padre era un pilota e la sua visione dall’alto ha influenzato la sua creatività. E’ così che ha realizzato i primi foulard e io ho raccolto tutte queste informazioni, questi dettagli e li ho messi insieme in modo inaspettato.

Perché Emma hai voluto per questa intervista il titolo “Rendere possibile l’impossibile?”

Emma. Perché la maggior parte delle volte quando ho un’idea, la mia prima reazione è “Oops, sarà difficile”, ma poi vengo qui e Andrea mi guarda e dice “OK, facciamolo!” Mi piace il suo coraggio.

Quindi siete dei perfetti “partners in crime”?

Emma: Sì.

Andrea. Si.

Emma. È molto rilassato mentre io non lo sono così tanto. Ci stimoliamo l’un l’altro, siamo anche molto simili sotto molti punti di vista e ci muove una grande passione per ciò che facciamo. E’ anche una questione di gusto e il nostro è molto simile. E’ tutto questo che fa funzionare il nostro rapporto. Ho molto rispetto per lui, per quello che fa.

Mi circondo di persone che mi piacciono, ci deve essere qualcosa in una persona che mi incuriosisce e sintonia, come due bambini che giocano insieme…ed è in quel momento che succede qualcosa di magico e la parte adulta scompare.

Tengo a Bonaveri tanto quanto tengo alla mia società. Non è solo andare da loro, fare il mio lavoro ed essere pagata, Ci tengo tanto quanto Andrea, forse di più alle volte! Posso farlo diventare matto.

Andrea. Ci compensiamo perfettamente perché io ho l’esperienza e tu la creatività. Tu hai la “Vision”… Ogni volta che facciamo un progetto, mi dico “questo è l’ultimo”. Ma poi mi rendo conto che è solo l’inizio di qualcosa di nuovo ancora a venire.

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